Codice Rosso: le prime crepe di una buona riforma

Il 2 marzo 2017 la Corte CEDU, pronunciandosi sul c.d. “ Caso Talpis” condannava l’Italia per violazione del diritto alla vita e del divieto di trattamenti inumani e degradanti, nonché del divieto di discriminazione in quanto le autorità italiane non sono intervenute per proteggere una donna e i suoi figli vittime di violenza domestica. In tale occasione, l’inerzia degli apparati investigativi determinò una situazione di impunità che contribuì al ripetersi di atti di violenza con il tragico epilogo del tentato omicidio della ricorrente e alla morte del figlio.

Nel recepire tale storica sentenza CEDU, il legislatore italiano ha emanato la L. n. 69 del 19 luglio 2019, il c.d. “Codice Rosso”, il cui fine è proprio quello di garantire una risposta rapida nei casi di violenza domestica e di genere.

Sono trascorsi appena tre mesi dalla sua emanazione e tale riforma mostra già le prime crepe: un sistema investigativo obsoleto e disarticolato non garantisce una risposta repressiva rapida ed efficiente in capo a chi compie atti di violenza domestica e di genere.

Tra le novità introdotte da “Codice Rosso”, l’elemento più significativo era contenuto nella nuova previsione dell’art. 347 c.p.p. laddove è previsto che in materia di maltrattamenti in famiglia, violenza domestica, violenza sessuale ecc. gli agenti di P.G. devono immediatamente riferire al P.M. la notizia di reato e quest’ultimo, entro tre giorni, dovrà sentire la persona offesa del reato o chi ha effettuato la denuncia.

Ma proprio su tale elemento la riforma mostra le prime crepe. In primo luogo, il PM nell’ascoltare la vittima di tali reati non incontra alcun obbligo ordinatorio, pertanto, ogni sua ritardo, o inerzia, in tal senso determinerebbe solo conseguenze sul suo piano disciplinare.

Inoltre, garantire tempi investigativi rapidi ed efficienti in risposta a tali reati drammaticamente diffusi soprattutto nei grandi centri urbani, incontra un sistema obsoleto e disarticolato ed affidato, nella maggior parte dei casi, a soggetti non specializzati in materia di violenza e maltrattamenti in famiglia.

La procura di Tivoli ha recentemente adottato un protocollo contenente delle linee guida per le forze dell’ordine e gli apparati inquirenti al fine di garantire un minimo di sistematicità nella repressione di tali reati, ma solo l’istituzione di un pool antiviolenza, perlomeno nelle grandi città, garantirebbe una reale efficienza e celerità di intervento nei tre giorni prospettati dalla legge. Un pool antiviolenza che risponda ad ogni criterio indicato da “Codice Rosso”, con la turnazione di magistrati specializzati in materia e la previsione di una task force stabile in grado di intervenire ad ogni segnalazione, che in città come Roma e Milano registrano un’incidenza drammaticamente diffusa con decina di denunce al giorno.

In conclusione, “Codice Rosso” ha individuato il sistema guida per ridurre al minimo gli episodi di violenza domestica e di genere ma per non tradire tale spirito riformatore serve che si dia un corpo a tale riforma, un’organizzazione sistematica nella repressione di tali fenomeni criminoosi.

Al momento abbiamo solo una buona legge, ma non gli strumenti idonei per attuarla.

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